I nomi dei due adolescenti non contano, la storia si e credo sia una di quelle storie da raccontare sperando che sia di ispirazione per altri giovani-eroi, adulti, famiglie, scuole e istituzioni. Sto parlando della storia del tredicenne marchigiano che ha letteralmente salvato la vita a un altro tredicenne incontrato in una chat anonima, una di quelle nelle quali si chiacchiera, per giorni, settimane, mesi o anche anni usando un nickname, senza conoscersi per davvero, senza vedersi, senza incontrarsi. Uno dei due, vittima di bullismo e cyberbullismo è a un passo dal farla finita e posta nella chat, quella con il ragazzino-coraggio e un paio di altri coetanei, un messaggio audio, un saluto, l’ultimo secondo quello che dice, preannunciando l’intenzione di suicidarsi il giorno del suo compleanno. L’altro ascolta il messaggio, capisce o, almeno, percepisce quello che sta per accadere. All’inizio rimane scosso, turbato, spaventato, quasi stordito. Ha tredici anni, impossibile non capirlo. Ha, comprensibilmente, paura che parlando violerebbe – incredibile la sensibilità per la confidenzialità di una chat che può esserci tra tredicenni – il segreto del compagno di chat, ma poi rompe gli indugi e reagisce. Lui lo racconta a scuola, la scuola alla famiglia, la famiglia alla polizia che identifica il tredicenne in difficoltà, in Piemonte, dall’altra parte del Paese, avvisa i suoi genitori, gli salvano la vita. Questa volta il sistema integrato di protezione e contrasto al cyberbullismo ha funzionato. Una storia drammatica ma a lieto fine a differenza di quelle che, purtroppo, ci si trova a raccontare più spesso, quelle che finiscono male, quelle nelle quali le parole dei bulli fanno più male delle botte come ha scritto in una drammatica ma lucida ultima lettera – la sua, purtroppo, ultima per davvero - Carolina Picchio, una delle prime vittime italiane di cyberbullismo, botte che producono ferite tanto profonde da apparire non rimarginabili a chi le subisce. Ed è per questo che è una storia che credo vada raccontata, condivisa, trasformata in un esempio, per tutti, ma soprattutto per i più giovani perché, probabilmente, tanti di loro, trovandosi nella stessa situazione, potrebbero fare la stessa cosa, superare la paura, lo smarrimento, lo stordimento e chiedere aiuto a un adulto o alle istituzioni, poco conta a chi, che sia a scuola, in famiglia, alla polizia postale, al Garante per la privacy. E se in tanti lo facessero, chissà quante vite si potrebbero salvare, chissà quanto più forte potrebbe diventare quella rete di protezione che, purtroppo, spesso, sin qui ha fallito. Perché, probabilmente, per un tredicenne è più facile confidarsi con un tredicenne, un coetaneo, rivelargli o rivelarle, la propria sofferenza, il proprio dolore, magari la propria decisione di farla finita. È l’unica ragione per la quale mi è sembrato utile raccontare questa storia e mi auguro faccia il giro del web, che sia conosciuta dai più piccoli e dai loro genitori. Se i più piccoli, i più giovani, i ragazzi, i coetanei delle vittime e dei bulli scendono in campo dalla parte giusta, forse, finalmente, riusciremo a arginare un fenomeno tanto drammatico quanto insensato, un fenomeno che trasforma bambini, ragazzi e adolescenti in carnefici di altri bambini, ragazzi e adolescenti, un fenomeno che, in tutto il mondo, ha già prodotto migliaia di vittime-bambine. Scendiamo in campo tutti insieme, bambini e adulti, con la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini, magari rosa, come erano quelli di Andrea, forse la prima vittima italiana di cyberbullismo, bullizzato, tra l’altro proprio per aver indossato un pantalone rosa, anzi, rosso ma scolorito in lavatrice. Glielo dobbiamo. Lo dobbiamo ai più piccoli che non ci sono più e a quelli che combattono quotidianamente contro parole e gesti da bulli e di bulli che appaiono loro insostenibili. Io nei prossimi giorni, se troverò forza e parole, racconterò questa storia alla più grande delle mie figlie. È una scelta pers
Published on 1 week, 6 days ago
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