Quello di oggi è un caffè che non avrei voluto invitarvi a prendere insieme su una notizia che a una prima lettura, lo confesso, mi era scivolata addosso, come se fosse una tra tante, poco significativa e, anzi, per esser onesti, del tutto insignificante.
Una storia tra titani.
Ma poi l’ho riletta e mi ha dato da pensare così tanto da decidere di proporvela.
Prima la sigla e poi ve la riassumo nei consueti tra minuti.
Getty Images è – ma non ha bisogno di prenotazioni – una delle più grandi media company di tutti i tempi, un’agenzia di contenuti fotografici e audiovisivi senza eguali al mondo.
È un autentico gigante, un colosso, un titano.
E, da subito, ha puntato l’indice senza mandarle a dire contro la pratica del webscraping massiccio con la quale le fabbriche di algoritmi hanno di fatto depredato i suoi archivi per addestrare i propri modelli senza chiedere alcun permesso.
Lo ha fatto in ogni sede possibile: sui media come in Tribunale.
Ed è per questo che fa riflettefre leggere le recentissime dichiarazioni dell’amministratore delegato della società che, tanto per riassumere, ha detto che difendere i propri contenuti dalla bulimia degli algoritmi e dei loro padroni è diventata un’impresa troppo costosa persino per loro, persino per Getty images.
Costa troppo portare i titani dell’AI in tribunale.
Le battaglie legali durano troppo a lungo e, nel frattempo, la depredazione continua e la perdita di competitività si perpetua.
Non possiamo più permettercelo, almeno non in maniera sistematica ha detto, senza tanti giri di parole, il numero uno di Getty images.
Impossibile non rendersi conto del problema davanti a parole tanto chiare.
Se, ammesso anche che le regole necessarie a orientare l’intelligenza artificiale al benessere collettivo e alla sostenibilità ci sono, vederle applicate e esercitare i diritti che esse attribuiscono al resto del mondo nei confronti delle fabbriche degli algoritmi è impresa impossibile – o, il che fa lo stesso, anti-economica – persino per giganti con bilanci a tanti tantissimi zeri, allora significa una cosa soltanto: i padroni dell’intelligenza artificiale stanno sovrascrivendo le regole democratiche con le loro e lo stanno facendo forti di una sostanziale impunità davanti alle nostre regole.
Ho detto e scritto più volte che questo secondo me non significa far innovazione perché non c’è innovazione nel sovvertimento a mezzo tecnologia dell’ordine democratico.
E questo a prescindere dalla bontà delle regole e dalla loro capacità di guidare il progresso nella direzione giusta.
Possibile che le regole debbano essere cambiate per scongiurare il rischio che tengano la società ancorata al passato, impedendole di far rotta sul futuro ma a cambiarle devono essere le Istituzioni democratiche sollecitate dagli innovatori che, specie quando hanno le dimensioni dei proprietari delle fabbriche degli algoritmi di oggi, non hanno problema alcuno a raggiungere Parlamenti e Governi per far presente questa esigenza.
Ma nessuno, in democrazia, dovrebbe poter ignorare una legge solo perché la ritiene superata dalla propria tecnologia che, peraltro, non è detto sia capace di generare benefici equamente distribuiti per tutti.
Ecco è per questo che sentir dire all’amministratore di un gigante, più o meno, che getta la spugna in Tribunale e che, in qualche modo, deve rassegnarsi, oggi ha fatto iniziare male la mia giornata.
Ma l’autgurio, naturalmente, è che per voi vada meglio e, soprattutto, che vada meglio alla privacy di tutti – sebbene proprio la privacy sia tra quei diritti che restano indietro, perché troppo difficili da esercitare, nella corsa dell’intelligenza artificiale – e, quindi, ovviamente, good morning privacy!
Published on 6 months, 1 week ago
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